L’iter della 194 tra compromessi, pressioni e lotte

La 194 del 1978, legge che tutt’oggi permette alle donne in Italia di compiere una interruzione volontaria di gravidanza, è senza dubbio figlia delle pressioni del movimento femminista degli anni Settanta, e non di certo della classe politica di allora.

E questi manifesti, risalenti al 1977-1978 lo testimoniano.
Abbiamo infatti avuto l’onore di digitalizzare parte dell’archivio dei manifesti dell’UDI di Palermo e, dopo aver visto con i nostri occhi le parole di lotta stampate in quei manifesti, ci è venuta la curiosità di approfondire come si sia arrivati a promulgare la legge 194.

L’iter parlamentare è stato molto lungo, durato circa 2 anni tra temporeggiamenti, oscurantismi e ripensamenti dei partiti di maggioranza, sia a destra che a sinistra, tutti accomunati comunque da un unico obiettivo: il mantenimento dello status quo, vale a dire, lasciare che l’aborto restasse un reato, come prevedeva il codice penale all’articolo 546.

IL COMPROMESSO ALLA CAMERA

La destra era totalmente contraria, la sinistra aveva già vinto le elezioni del ‘75, nonché la legge sul divorzio e non voleva peccare di tracotanza, abbracciando un’altra battaglia riformista, quindi si dondolò tra posizioni altalenanti.

Di fronte a questo immobilismo, i vari movimenti femministi in generale e l’UDI in particolare – che fece da intermediario tra il sistema politico istituzionale e il ricco panorama dei movimenti – fecero una tale pressione sul parlamento che la questione dell’aborto clandestino non venne archiviata.

Ad accelerare i tempi della politica sono stati alcuni avvenimenti che hanno reso l’aborto un tema caldo anche nella stampa quotidiana.
Primo tra tutti il “disastro di Seveso”, uno dei più gravi incidenti ambientali della storia italiana che vide una nube tossica sprigionarsi dallo stabilimento di una fabbrica chimica a Seveso, in Brianza, nel luglio del 1976. L’esposizione a questi fumi tossici era percepita – e non ancora accertata – come un grave danno per la salute, in particolare per le donne in stato di gravidanza che avrebbero potuto riportare una malformazione del feto.
Il mese successivo, l’allora giovane Emma Bonino appartenente al Partito Radicale, presenta una proposta di legge relativa all’IVG per i casi specifici di intossicazione dipendenti dalla nube di Seveso.

A questa, sono seguite una serie di proposte di legge, il cui “intento era frapporre un argine tra il rifiuto netto e la radicale liberalizzazione: si voleva far uscire il problema della clandestinità, insistendo insieme sull’autodeterminazione della donna e sulla socializzazione della soluzione.” Andreas Iacarella

Si arriva così al 21 gennaio 1977: alla Camera, con 310 voti a favore e 296 contrari, viene approvata la proposta di legge dal titolo Norme sull’interruzione della gravidanza, figlia di un compromesso tra tutte le fazioni politiche, che comunque rimasero insoddisfatte.

L’ENNESIMA BOCCIATURA AL SENATO

Depenalizzare e regolamentare, non di certo legalizzare l’aborto: questa la posizione del fronte moderato-comunista contro le proposte di liberalizzazione provenienti da radicali, demoproletari e movimenti femministi.
In un periodo storico come quello degli anni di piombo, imporre il rigore e frenare qualsivoglia cambiamento era la posizione dell’asse DC-MSI.

Ed è proprio tra una ridiscussione della legge alla camera e una bocciatura al senato che nascono i “Pro vita”: nel gennaio 1977.
Come se non bastasse la già enorme ingerenza della CEI – Conferenza Episcopale Italiana alla vigilia del voto al Senato, che continuava ad inviare telegrammi alle tre cariche dello Stato e al Consiglio dei Ministri per esprimere la sua assoluta contrarietà alla legge sull’aborto.

Il Movimento per la vita trova la sua ragion d’essere nel fomentare le già enormi pressioni del fronte cattolico sulle decisioni politiche, tanto che indirizzò a tutti i senatori un appello intitolato “Vita o Morte?”.
Tra le sue prime azioni vi è la raccolta firme per una legge di iniziativa popolare contro l’aborto, avallata dalla DC e, come vedremo più in là, nel 1981 promuoverà un referendum per abrogare la neo-approvata 194.

Siamo a giugno del ‘77 e si vota per la seconda volta al Senato. L’asse DC-MSI, che era riuscito a imporre gli emendamenti sull’obiezione di coscienza, riuscì comunque – con 156 voti contro 154 – a bloccare per la seconda volta la legge, grazie a 7 parlamentari che cambiarono sponda durante lo scrutinio segreto.
Questo manifesto, risalente proprio a quel periodo, testimonia la forza, la rabbia, ma anche la speranza di tutte quelle donne che credevano che quella sarebbe stata la volta buona. Secondo un’indagine Doxa il 55% degli intervistati non riteneva l’aborto entro le prime tre settimane un reato.

La proposta di legge torna così per la terza volta alla Camera.

L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE 194

Siamo nei primi mesi del ’78, in pieno periodo stragista e Aldo Moro è stato da poco rapito. Alcuni esponenti della DC reputano che sia il periodo più florido per riaffermare alcuni principi morali: il rispetto della vita umana primo tra tutti.

Dinnanzi allo stallo politico, i radicali, che nel frattempo avevano raccolto le firme per il referendum sull’aborto, aspettano il mese di giugno per indirlo.
L’opinione pubblica si aspetta una risposta da parte della classe politica e, d’altra parte, un’approvazione rapida in Senato, qualunque essa sia, è più che mai necessaria per evitare passi falsi. Dopo la terza lettura con scrutinio segreto, tra cambi di sponda e defezioni di alcuni parlamentari, il nuovo testo di legge è stato approvato alla Camera.

Tra il 18 e il 21 maggio del 1978, il testo viene discusso in Senato e con 160 voti favorevoli e 148 contrari, viene finalmente approvato.

A poche settimane dal ritrovamento del corpo di Moro, la legge 194, dal titolo “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, porta la firma del Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e dei ministri Anselmi, Bonifacio, Morlino, Pandolfi.

La legge è stata approvata “per il bene del paese”, rivendicano le forze politiche, non di certo in nome
dell’autodeterminazione della donna. La 194 non consente l’aborto volontario sulla base di una scelta libera e senza giustificazione, piuttosto, regolamenta i casi in cui l’aborto non può essere considerato un reato punibile (art.4).
Inoltre, già all’epoca il diritto di “obiezione di coscienza”, riconosciuto espressamente dalla legge, veniva visto con preoccupazione: il rischio che diventasse uno strumento capace di rendere di fatto inoperante la legge era alto.

Ed oggi, a distanza di 44 anni, possiamo confermarlo.
Perché se #noneunveleno esiste e si batte ogni giorno, insieme ad altre realtà sorelle in Italia e nel mondo, è perché l’assenza di una regolamentazione sull’obiezione di coscienza, di fatto, vanifica l’applicazione reale del diritto all’aborto, nato già monco nel suo lungo concepimento.